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Lo snobismo dei giovani disoccupati

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Secondo un’interessante iniziativa di “La Repubblica”, l’87% dei giovani disoccupati, non accetterebbe un lavoro qualunque, un lavoro, per intenderci, per il quale non ci si sente sufficientemente valorizzati.

Questa statistica offre interessanti spunti di riflessione, in un contesto come il nostro in cui la disoccupazione giovanile è dilagante e sempre più spesso le nuove generazioni sono viste come le principali vittime di questo sistema generato dalla crisi.

Appelli di Napolitano, discorsi su cui i nostri politici fondano le proprie campagne elettorali, manifestazioni di protesta: tutte prese di posizione dove il comune denominatore è la precarietà e la disoccupazione giovanile.
Tuttavia il rischio che si corre è che si scada sempre più verso un auto compatimento, verso una giustificazione, un alibi alla mancanza di mobilità e all’incapacità di adattamento dei ragazzi di oggi.

Quando facciamo un paragone con i nostri genitori o addirittura con i nostri nonni, decantiamo le condizioni più favorevoli nel quale essi si trovavano. Se questo in parte è sacrosanto, è altrettanto vero che un cinquantennio fa i nostri antenati avevano di fronte un contesto in cui vi era un paese appena uscito da un conflitto mondiale.I giovani di allora quindi si trovavano nella condizione di dover ripartire da zero, per poter garantire un futuro ai loro figli, ma anche un presente a loro stessi; intere generazioni che emigravano dal sud verso il nord, lavorando di giorno in fabbrica e costruendosi, mattone dopo mattone, una casa dove vivere.

Il panorama odierno è decisamente più desolante, i ragazzi di oggi lamentano la propria condizione precaria, ma allo stesso tempo hanno la puzza sotto al naso, molti di essi vivono una realtà distorta fatta di social network, di modelli televisivi deviati usciti da reality show e da intere giornate passate davanti alla play station. Certo, le poltrone di un certo prestigio sono occupate, e quasi sempre da raccomandati figli di, ma è anche vero che un’infinità di lavori pratici manuali sono inoccupati e snobbati. Lavori che comunque permettono dignitosi guadagni e di cui la società sente il bisogno, molto più che di un ennesimo avvocato o architetto o consulente finanziario. La verità è che l’italiano medio, forse influenzato da cattivi modelli che i nostri media e la nostra comunicazione inculcano, vuole lavorare poco, guadagnare molto, comandare e soprattutto godere di una fetta di potere. A mio avviso la colpa non è solo degli agi a cui i genitori abituano i figli, che impediscono ai “bamboccioni” di rimboccarsi le maniche. Gran parte della colpa ce l’ha una classe politica diseducativa e amorale, che non indottrina al duro lavoro e alla meritocrazia.

Mi immagino lo scenario di un ventenne che accende la tv e gli scorrono le immagini del politico imbellettato, che gode di auto blu h24, lauti stipendi, visibilità televisiva, “gradite” compagnie femminili e la pensione dopo appena due anni di “duro” lavoro. Lo stesso ragazzo non può che porsi la fatidica domanda: “Perché dovrei fare come mio padre, perché ammazzarsi di lavoro quando in questo paese si possono usare determinate scorciatoie che ti permettono potere e guadagni facili, piuttosto mi siedo in poltrona, mi abbandono all’autocommiserazione, e aspetto l’occasione che mi cada dal cielo”.
Quando si dice la mancanza di necessità, non fa virtù..

U. Cataluddi

Movimento Unione Italiano.

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